lunedì 3 novembre 2025

7. Le fate ignoranti

"Le fate ignoranti sono quelle che incontriamo e non riconosciamo ma che ci cambiano la vita.
Non sono quelle delle fiabe, perché loro qualche bugia la dicono. 
Sono ignoranti, esplicite, anche pesanti a volte, ma non mentono sui sentimenti.
Le fate ignoranti sono tutti quelli che vivono allo scoperto, che vivono i propri sentimenti e non hanno paura di manifestarli.
Sono le persone che parlano senza peli sulla lingua, che vivono le proprie contraddizioni e ignorano le strategie..."

- F. Ozpetek

Chissà se sono una "fata ignorante" anch'io? O se lo sarei stata, se non avessi vissuto certe esperienze non propriamente piacevoli (sebbene formative, in ogni caso).

L'altro giorno ero al supermercato, in orario di chiusura. Il lato d'uscita era già chiuso dall'interno. Una donna, islamica tappeggiava con le nocche delle dita sul vetro della porta scorrevole, forte, per farmi capire: "Di' loro di farmi entrare!".
Allora mi sono rivolta alla cassiera e con la mia tipica timidezza le ho fatto notare che una signora stava cercando di entrare e se, per cortesia, potevano aprire la porta. "Stiamo chiudendo" ha detto la cassiera ignorando la richiesta.
Uscendo ho visto la fata avvicinarsi con una furia nelle gambe che quasi le cascava il velo dalla testa. Le ho sorriso: "Mi spiace, ma..."
Prima che potessi spiegarmi lei sbottò, irritata: "Ma certo che te sei proprio una deficiente! Ti dico di farmi entrare, non mi aiuti?!"
Scioccata dalla reazione, per un attimo sono rimasta di stucco. Poi ho contrattaccato: "Guarda che ho chiesto. Non mi hanno ascolt..."
"Ma va, va!" sbotta la fata ignorante, in risposta, mandandomi a quel paese ed entrando nel supermercato dall'accesso anteriore (quello d'entrata).

Potrà sembrare assurdo, ma io vorrei corrispondere al medesimo stereotipo. Quello di una donna cafona, schietta, menefreghista al massimo, sguaiata, diretta, cinica, che se ne frega/"fotte" di tutto, che fotte il mondo fottendosene.

E forse un po' lo sono, dentro.
Forse un po' lo sono, ma non ho abbastanza coraggio e forza d'animo da vivere la vita come la vivono loro completamente: perché la mia "ignoranza" stride con un altro mio attributo: l'ipersensibilità.
Per le logiche di questo mondo, la sensibilità è più un difetto che un pregio. La vita va attraversata... proprio come la oltrepassano certune/uni: con leggerezza tale da galleggiare in aria.


... le "fate ignoranti" sanno vivere la vita anche se potrebbero non aver letto neanche un libro in vita loro. Le persone come me credono che la vita vada "conosciuta" e si buttano sulla lettura dimenticandosi di vivere. Mentre la vita pertiene più il "fare" che il "sapere".

E le fate ignoranti nel "fare", nell'agire senza pensarci neanche un secondo, sono maestre di vita.
Una "fata ignorante" leggendo un post del genere saprebbe solo sghignazzarne. Perché non è fatta per le cose "teoriche" o per le "filosofie astratte". La trovi più facilmente al mercatino a guardare i vestiti più buoni e modici di prezzo. E di quello le interessa. Là si ferma.

Questo non fa di lei una stupida.

Fa di lei una "filosofa occulta".

Poiché, come nella citazione di Calvino riportata su, per vivere bene il cuore dev'essere leggero - e non appesantito da inutili drammi, spesso esagerati, o comunque rinforzati dal vittimismo, dal crogiolarsi nella sventura.

Una fata ignorante urla. Non puoi spegnere la sua voce. Se tradisci il suo "onore" sboccatamente te ne dice (te ne urla) di tutti i colori. Come fece quella donna islamica con me, insultandomi per una banalità come quella.

Non ho tanto come ideale quello della donna-bambolina.
Adoro personaggi che oltrepassano la vita ridendole in faccia. Ridendosela. Godendosela al massimo. O più che adorarli, li invidio. (bonariamente).

sabato 1 novembre 2025

6. Stati sociali

Alla (non sempre affidabile) ChatGPT ho posto una specifica domanda: i social stanno morendo? La risposta è stata (in estrema sintesi): no, si stanno solo "evolvendo".

Invece stanno proprio morendo.
Fra gente che non sta bene di cervello - in modo, direi, troppo, davvero troppo grave - e gente che li utilizza al solo scopo di trollare, una persona sana:
  • crolla.
  • o diventa matta anche lei
  • o si cancella.
Sono una Millennial, e nella mia generazione nessuno più - o quasi - utilizza Facebook, Instagram, altro. Se prima possedeva un account, ora non lo utilizza o lo ha eliminato del tutto.
Gli ultimi giorni li ho praticamente "buttati" "dal terrazzo" passando tutto-tutto il giorno su quei tossici e pessimi ambienti, ottenendo solo l'effetto di deprimermi e sfogarmi sul cibo. (per noia, per stress)
La cancellazione è un'opzione sempre più appetibile.


E parlando di cibo: il 30 ottobre ho avuto una visita con una nutrizionista. Una persona buonissima che, piuttosto che prendermi in cura spillandomi soldi su soldi (e chi se ne frega), mi ha fatto tutto un discorso sul fatto che il mio rapporto conflittuale con il cibo è (rappresenta) a tutti gli effetti un disturbo alimentare che perciò necessita di un intervento specifico, che lei non poteva fornirmi.

C'è un centro per DCA nelle vicinanze che, invece, diceva lei, può seguirmi ambulatorialmente. Ciò significa che posso svolgere le normalissime visite di una persona che si rivolge a un nutrizionista/dietologo, una volta ogni settimana, ma con la mutua. La gentilissima dietista ha scritto una lettera che ho lasciato al mio medico di base per spiegarle la situazione; l'impegnativa dovrebbe essere pronta lunedì.


Ieri era la festa degli americani che amano intagliare zucche.

Per festeggiare "qualcosa" (io non festeggio Halloween, non perché sia cristiana, ma perché sono... beh, sì, sono adulta), anziché il classico film horror al cinema o in streaming, ho voluto andare a teatro. E non nascondo che fra tutta quella gente benvestita con piumini o pellicce e con i capelli cotonati/perfetti, con corpi perfetti, mi sentivo un po' a disagio nel mio vestito nero lungo, con la mia giacchetta di jeans di Kiabi (quanto mi sarà costata? Poco, comunque). Qualche sguardo l'ho subìto, ma me ne sono fregata.

Si trattava del concerto "Candlelight" a Bergamo, un'orchestra che, a lume di candela, ha eseguito alcuni pezzi dei Coldplay. (fra cui "Yellow" e "Fix you", ma anche "Paradise", "Something like this").





E' stata un'esperienza tutto sommato piacevole.
Tornando a casa ero talmente stremata che in 10 minuti ero nel mondo dei sogni (era quasi l'1 del mattino).

Parlando di Halloween: non trovo nulla di entusiasmante in esso come nell'"orrore" in generale, anche se parliamo banalmente di film o romanzi thriller/horror o di true crime. Io sono il tipo di "confettosa" donna che va vestita con le magliettine bianche, i cappellini rosa in inverno. Non mi è mai piaciuto tutto ciò che fosse "dark" se non quando ero proprio giovane - 16 anni - e compravo su siti di dubbio gusto di moda punk (ero abbastanza magra da permettermelo), tingendomi i capelli di rosso e facendomi gli occhi "a panda" (cerchiati di tanto di quel nero che...).

Qualche volta, sulla ventina, ho provato ad intagliare una zucca in onore della vigilia di Ognissanti ("festività" quest'ultima che sento molto più vicina), ma mi è costato così tanta fatica cercare di svuotarla (nei libri di inglese per bambini delle elementari la presentano come la cosa più facile del mondo... sì... "accompagnati" dagli adulti...) che vaffanculo, ho messo la polpa che avevo raccolto in una ciotola e poi l'ho tagliata a fette. (La vellutata di zucca era ottima...)

Halloween in Italia non potrà mai raggiungere la popolarità degli Stati Uniti, non lo ha davvero mai fatto, però nell'ultimo decennio vedo che la sua popolarità qui è ulteriormente calata. Niente più citofonate dai bambini, nessuno in maschera per le strade, nessuna decorazione all'interno dei negozi (giusto qualche petardo, perché la gente è effettivamente scema). La gente continua a restare per lo più atea/agnostica, quindi non è che sia una faccenda di moralismo religioso. Non "sentiamo" più certe festività estranee alla nostra cultura, ancor meno di un tempo (che erano quasi "una novità"...)

Halloween non sarà insomma mai il Carnevale, in Italia. E va benissimo così. Ognuno con le sue tradizioni. Questo "globalismo" o meglio "americanismo" imposto a tutto il pianeta mi risulta fastidioso. E' un bene che l'America stia perdendo potere e influenza nel mondo. Personalmente non credo che la "cultura" (se di cultura si tratta) americana abbia molto di importante e notevole da offrire. La stessa Statua della Libertà è un'opera copiata a man bassa da un'altra opera, di uno scultore italiano.

Statua della libertà a Milano vs a New York. 
La prima opera è precedente. Il suo nome fu "Statua della Legge Nuova", realizzata da Camillo Pacetti nel 1810. La "Statua della libertà", plagiata da suddetta opera, è più giovane di almeno 70 anni.

Sono "contenta" (?) che gli Americani stiano dettando legge in merito all'"inclusività" di certe categorie "svantaggiate" come i LGBT, come gli obesi, che è una cosa tutto sommato morale e buona; tuttavia credo che ogni popolo debba preservare le proprie tradizioni - l'Italia ha le sue, come il Carnevale, come Santa Lucia, e altro. L'America si tenga pure Halloween, che con il nostro Paese c'entra come i cavoli bagnati nel latte fresco a colazione.

giovedì 30 ottobre 2025

5. Perché la salute mentale non è una vergogna

Volevo parlare del motivo per cui ho deciso di esprimere chiaramente e senza remore, in bio, di soffrire di una patologia psichiatrica come il DBP. La ragione è che, anche se per la maggior parte della gente essere "malati" (psichici, mentali, disturbati, quel che volete...) è solo una vergogna, portando spesso - al di là di ogni altro fattore in gioco - ad un evitamento da parte degli altri, a un'esclusione da parte degli altri dovuta alle più vaste motivazioni... per me soffrire di una malattia mentale (o di un disturbo della personalità) non è, e non sarà mai, una vergogna. Ma solo un "fatto". Pure di scarsa importanza.


Certo: lottiamo per i diritti dei gay e dei palestinesi, ma "malato mentale" è ancora un insulto, non una condizione medica (così come "grassone" è socialmente bene accetto, nonostante anche l'obesità sia una patologia medica).

Non è ancora contemplato nella moda dei rivoluzionari manifestanti lottare per i diritti di chi sta male psicologicamente. Chi agisce "sbandato" dalla malattia viene ancora ritenuto pienamente responsabile del suo "sbandato" comportamento e giudicato con lo stesso metro di giudizio che si userebbe con un "sano"; perciò viene tacciato di stupidità, cattiveria, e altro.

Forse verrà un tempo (felice) in cui cominceremo a sentirci liberi di parlarne. In futuro.

Personalmente vedo il mio disturbo come un "difetto", parte congenito, parte dovuto alle esperienze di vita, che so di dovermi impegnare a risolvere o limitare, ma non mi sento "impedita" in questo, in senso lato.
Non avrei sennò scelto consapevolmente di continuare con l'università, nonostante lo scetticismo di addetti ai lavori e psicologa. (Quest'ultima temeva che mi causasse ansia e stress eccessivi).

La distinzione fra "sano" e "malato" è molto fioca, sbiadita, anche se per la medicina ufficiale un criterio distintivo c'è. Ed è quanto (in che misura) un "disturbo" - la presenza di uno o più disturbi sembra in tutti i casi inevitabile, in ciascuna persona del mondo - inficia la sfera sociale, lavorativa, interpersonale, quotidiana, di una persona. Un "malato mentale" a differenza di un "sano", semplicemente non ce la fa a tener dietro alle cose che per una persona sana sono facili o poco impegnative: tenere in ordine se stessi e la casa, per esempio; avere costanza nelle proprie responsabilità; avere e mantenere amicizie con cui passare il tempo; e altro.

Si dichiara "guarito" il malato che riesce, con le cure giuste, a sostenere tutti questi aspetti della vita con successo e senza lo sforzo che prima comportavano per lui.

Vorrei approfondire il discorso circa le "limitazioni della patologia psichiatrica" relativamente a ciò a cui ho già accennato: la scelta di proseguire gli studi nonostante qualche recente scoraggiato tentennamento. 

Credo che non ci sia nessun problema nel proseguire il mio percorso accademico, senza ansie e malesseri, ma con la giusta tranquillità, e con i miei tempi, pur essendo malata. Credo di essere - nonostante tutto - abbastanza "sana" e abbastanza "sveglia" da arrivare, prima o dopo, alla laurea. Ci sono molte persone "instabili" persino più di me che non sanno di esserlo (malate) solo perché non si sono mai fatte controllare da un medico psichiatra. E costoro non hanno bisogno per forza di iscriversi ad un'Università farlocca (telematica) per farsi regalare la laurea. Li trovi comunemente e tranquillamente nelle aule delle normali Università pubbliche. 


Il film "A beautiful mind", incentrato su John Nash, premio Nobel per la fisica, che illustra proprio il suo percorso come docente (neppure studente) universitario e il suo amore per una sua brillante studentessa, si sofferma - o meglio: si incentra - sul suo "piccolo problema" di schizofrenia in primis. Nash vedeva una "presenza" inesistente nella stanza, un uomo. Era un'allucinazione che lo colpiva in qualunque momento della sua giornata, inaspettatamente. Ad una conferenza, con l'umiltà che solo le "belle e grandi menti" hanno, ne parlò schiettamente: parlò anche di come aveva, a suo modo, "risolto" un problema nei fatti irrisolvibile: sapeva che l'uomo fosse lì, lo vedeva distintamente, ma sapeva anche che non esistesse davvero; e poteva integrare entrambe le consapevolezze mantenendo la calma. (Altra accezione del suo essere geniale).

Secondo E. Fromm, chi si ammala gravemente di una patologia mentale in genere ha una marcia in più - e non in meno - degli altri. Ne spiega anche le ragioni: la patologia mentale essenzialmente sarebbe, secondo lui, una sorta di reazione all'Assurdo camussiano, all'Assurdo della vita. I malati mentali, gravi, così come quelli che cadono in dipendenze come l'alcool e la droga, non si accontentano delle soluzioni convenzionali ("il senso della mia vita è..." il denaro. La carriera. La religione. La bellezza. La cultura. Il sesso. ecc.) ma vanno in cerca della Verità, nella loro testa, unica sulla vita. Perciò, siccome qualcosa del genere è inconcepibile dal cervello umano, in poche parole perdono l'equilibrio e "impazziscono".

Ma questo non pregiudica la loro intelligenza. (Nash è un esempio).

Una persona malata mentalmente non è (per forza; anzi, quasi mai) "scema". Questo i "cosiddetti sani" e i NP non diagnosticati non riusciranno facilmente a capirlo (per aridità di cuore e/o limitatezza di orizzonti mentali). Dall'Ufficio Inclusione mi hanno sollevato tutti quei "dubbi", facendomi anche del male gratuitamente, per mera e semplice ignoranza, o pure stupidità (loro). Non serve per forza chissà che intelligenza per studiare all'università, fra le altre cose.

Il funzionamento di un cervello "malato" è diverso da quello di uno "sano", ma questa diversità non riguarda le capacità e le prestazioni intellettuali o cognitive. (Lo stesso vale per gli Asperger o gli Autistici ad alto funzionamento). Con il giusto impegno, otterrò quello che ottiene un qualsiasi studente. Non ho intenzione di considerare un "handicap insormontabile" la mia poca serenità psicologica.

martedì 28 ottobre 2025

4. Il coraggio d'essere "comuni"

Gli atti ordinari che pratichiamo ogni giorno a casa hanno più importanza per l'anima
di quanto la loro semplicità possa suggerire.
Thomas Moore

l titolo del post si rifà al libro di due autori giapponesi, un self-help, ma più serio della media dei self-help che parlano di denaro, successo, chiamato "Il coraggio di non piacere". Un giorno uno dei due autori trovò in una biblioteca un libro, "Introduzione alla filosofia adleriana" e da lì, in collaborazione con un altro autore, trovò l'ispirazione per comporre "Il coraggio di non piacere"; oltre che il coraggio di vivere appieno la sua vita in un momento per lui difficile.

Lo trovate su IBS, qui

La psicologia (ma si tratta più di una "filosofia") adleriana si basa su concetti di immediata comprensione, così semplici e (proprio perché così semplici, pratici) immediatamente utili a dare indicazioni esatte su come affrontare la vita.

La sua principale tesi è che le azioni delle persone siano sempre volte a uno scopo. Significa che le aspettative precedono le cause, e che le cause preventive in realtà non abbiano importanza: come esseri umani siamo programmati per fare tutto per uno scopo, mai a causa di (qualcosa). Nel testo, in cui un "Filosofo" (esperto in filosofia Adleriana) e un "Giovane" dialogano esplorando diversi "perché" della vita, si fa l'esempio - efficace - di un ragazzo hikikomori. Una persona, descritta dal giovane, per bene, intelligente, con ottime qualità. Che non riesce ad uscire dalla sua stanza. Il Filosofo risponde (in sintesi): 

"Il tuo amico se ne sta chiuso in camera sua non a causa dei traumi subiti per colpa dei suoi genitori (visione freudiana della psicoanalisi, nda), ma per lo scopo (inconsapevole) di "punire" i suoi genitori facendoli soffrire per il suo isolamento ed ottenere da parte loro l'attenzione e l'importanza che non gli hanno riservato durante l'infanzia." 

Quando abbiamo un qualche problema, in effetti, riceviamo maggiore attenzione da parte di chi ci sta vicino, apprensione, forse "affetto". Io sono stata cresciuta in braccio all'idea che solo e soltanto se fossi stata male avrei ricevuto, da mia madre (che era il mio unico genitore), affetto. Altrimenti era freddezza, indifferenza, assenza di amore, di cura, da parte sua.

Quando avevo 5 anni, durante un gioco con i miei cugini, mi schiacciai un dito sullo stipite di una grossa e pesante porta. Furono ovviamente grandi pianti. Il mio dito sanguinava molto. Non ho più dimenticato quanta cura mi avesse riservato mia madre in quell'occasione, cullandomi, coccolandomi. Forse a quei tempi si andava formando l'idea: se sei malata, ti amerà (lei). Se sei sana, no; la perderai. E così in effetti è sempre stato. Mia madre mi riserva, attualmente, un amore condizionato dal mio star male, essere malata. E poiché sento un grande affetto per lei per me è difficile mettermi al primo posto ed avere semplicemente il coraggio di stare bene, tradendola, facendola soffrire, uscendo dal "ruolo" tossico che mi ha costretta ad incarnare per un suo tornaconto. O piuttosto: che io mi sono costretta ad incarnare per essere amata da lei.

Credo esistano due Anna: l'una è una persona calma, gentile, assertiva, educata, con proprietà di linguaggio, con cautela di linguaggio, riflessiva, piena di affetto verso gli altri - un affetto "moderato" dalla razionalità, e non "esplosivo", disturbante; l'altra, è una persona che non voglio neanche descrivere perché è il peggio. Questa personalità "divisa" riflette il conflitto fra parte sana e parte malata. Perché io so di poter dar potere alla parte sana. Sento anche che, a questo punto, sia un mio dovere inaggirabile darle potere, sempre più potere - fino ad una bastante guarigione.

Parlare di "guarigione totale" in psichiatria è un azzardo. Ma talvolta ci si può riuscire. Marsha Linehan, inventrice della DBT (Dialectical Behavioural Therapy), è apparentemente "guarita" dal suo disturbo, il DBP, con la sua grande forza di volontà. "Perché l'ho fatto?" spiega nel suo libro, "Una vita degna di essere vissuta". "Perché non volevo morire vigliacca".

Abbi coraggio di vivere "normalmente", perché non è nella ricerca di emozioni facili e forti che risiede la vera vita. Non prenderei mai a modello un Leo Dicaprio o un Fedez, l'uno che cambia donne come cambia le mutande (perché annoiato da una vita vuota e priva di sentimenti, di amore), l'altro un "miserabile" che sbatte in faccia banconote da 500 ai barboni mentre scorrazza a tutta birra in Maserati sulle vie di Milano. Queste persone non sono normali, e più di ogni altra cosa, non sono felici

La felicità non si trova nei grandi eventi, nelle vite cerimoniose, ma spesso in quelle più semplici; in quelle più "monotone", fatte di piccole cose ordinarie, piccole gioie ordinarie. Tutto ciò che conta nella vita - sono convinta - è valorizzare la qualità di ciò che si ha. E circondarsi di persone che "fanno sorridere il cuore" (cit.), un caffé al mattino, un cibo buono, una bevanda calda nelle sere fredde, cose di questo tipo, stupidaggini di questo tipo, fanno una vita "degna di essere vissuta", da sole. Non serve avere vicino la Velina (Leo) o possedere milioni di euro (Fedez). Queste cose non "nutrono" l'anima.

Questi valori sbagliati sono il riflesso di una società che è malata, ma noi dobbiamo avere il coraggio di essere, e mantenerci, sani, ordinari, in equilibrio fra cuore e mente, ogni giorno. Non è (come nel film di Muccino) la "ricerca della felicità" ma solo della "tranquillità". 

Oltrepassiamo questa vita con calma e assennatezza. Non cerco, e non devo cercare, emozioni facili e forti per stare bene. Avrei voluto saperlo prima.

lunedì 27 ottobre 2025

3. No, you can't

Ho appena finito un colloquio con un dipendente dell'Ufficio Inclusione dell'Università - ho la mia disabilità e l'ho presentata schiettamente al momento dell'immatricolazione. La conversazione è fluita più o meno tranquillamente, a parte picchi di angoscia da parte mia che non riuscivo a non sentirmi fuori luogo davanti a quegli occhi scuri, e a quel viso freddo, o così mi pareva di percepirlo.

L'Ufficio Inclusione, (come il dipendente stesso mi ha detto), ha a che fare con i più vasti e variegati casi di "disabilità": da chi è sordomuto a chi è sordocieco a chi è in carrozzina, ecc.

Ha a che fare anche con chi ha malattie psichiatriche ("mentali" disse lui usando un termine un po' forte; certo molto più forte del mio "(ho un) disturbo di personalità"), certo. Però, disse l'operatore, quelli sono i casi più difficili da trattare in facoltà. Perché lo studio richiede costanza; fatica; impegno. Ecc. E la mancanza di queste qualità - che io più tardi ho chiamato col nome che lui non ha voluto nominare: "stabilità" - significa scarsi, o nulli, risultati nello studio.

Allora glielo dissi: ho la mia non più giovanissima età, mi sono iscritta più volte a diversi poli universitari, ma non sono mai riuscita a frequentare per via del mio disturbo. E lui - questo dettaglio mi ha ferita molto - ha annuito, forse per dimostrare partecipazione emotiva, ma - nella mia non serena psiche - è balenato per un attimo il pensiero (triste) che sapesse già da prima.

"Leggo da tanti anni", gli dissi. "So che l'università non è una "clinica del benessere", nonostante le abbia detto che una delle motivazioni per cui mi sono iscritta (la più importante) era trovare una motivazione (un "perché") alle mie giornate (alla mia vita). Ma ho solo pensato che indirizzare il mio amore per la conoscenza e la mia curiosità verso un obiettivo 'concreto' potesse giovare alla mia autostima e forse, aiutarmi ad affievolire il "disturbo"" (e invece era: smentisse il mio sentirmi una fallita eterna).

La conclusione della videoconferenza fu: proviamoci. Vedremo poi come va. E prenderemo le decisioni opportune al momento opportuno.

Ora devo recuperare qualche spicciolo e mettere una toppa al mio cuore.

2. Il primo mattino

La giornata inizia nel modo giusto, ma devo mantenere la costanza lungo tutto il percorso giornaliero.
Ho un'applicazione (TimeTune) sulla quale ho registrato, e seguo quotidianamente, un programma di routine giornaliera dove anche le pause sono pre-programmate.

Non mi svegliano nemmeno le bombe - non sento la sveglia -, e sapendo di dovermi alzare molto presto (6 del mattino, ogni giorno) posso solo andare a letto non troppo tardi e sperare che la fortuna mi assista. Stamattina credo fossero le 5:10 quando mi sono alzata. Ho avuto tutto il tempo di farmi un caffè, vestirmi e sciacquarmi il viso, poi sono uscita a camminare.

Non è piacevole ammetterlo, ma sono una donna con evidenti problemi di sovrappeso. Un sovrappeso, il mio, un po' severo, dovuto a un disturbo del comportamento alimentare chiamato Binge-eating disorder, che ha fatto seguito a un periodo (estremamente giovanile) di bulimia nervosa. Non sono una donna alta - un paio di cm più in basso della media italiana per le donne - e stamattina, pesandomi, ho guardato, senza troppo sconforto, il solito numero sulla bilancia che per tanti significherebbe orrore vero e proprio: 118 kg. 
La mia obesità - di terzo grado - si è formata negli anni perché cercavo nel cibo una consolazione che non trovavo nella vita che vivevo. In seguito il grasso stesso ha funto da "barriera" contro ogni mio tentativo di smaltire la ciccia con dieta e attività fisica. Più sei grasso (non molti lo sanno), più l'organismo difende le tue scorte di grasso contro ogni ragionevole tentativo di toglierle di mezzo.

Capitava che camminassi a lungo, ma poi, tornando a casa stanca, mi sfogassi sul cibo. Una persona che pesa 118 kg porta uno "zaino" sulla schiena di circa 70 kg (d'eccesso di peso). Perciò l'attività fisica mi è un po' difficile, ma per mia fortuna ho una buona muscolatura (specie sulle gambe) e riesco a reggere lo sforzo di un'ora e mezza di camminata rapida continua fino all'ultimo secondo. Ma non posso andare oltre l'un'ora e mezza o rischio di avere l'effetto "stremante" per cui cado nelle mangiate compulsive e/o dormo ore e ore. E' il massimo dell'attività fisica quotidiana che posso tollerare senza brutte conseguenze.

Non ho perso peso fino ad oggi (non solo per il cibo ma) anche perché ho un metabolismo molto basso (sindrome metabolica), e l'ovaio policistico. Da qualche mese assumo il famoso Ozempic (Mounjaro). Non sta funzionando, perché di base, pur facendo dell'attività fisica, ho continuato a mangiare in eccesso.

Comincia così: con i migliori propositi. Poi le calorie di fine giornata sfiorano le 2500, talvolta le 3000. E assicuro di non capacitarmene, perché, (e noto che vale per tanti obesi), a me sembra di mangiare "il giusto", talvolta sono così presuntuosa da pensare di mangiare "poco". Le calorie comunque parlano chiaro, ed è una forma di dissonanza cognitiva la mia.

Ho preparato uno schema alimentare improntato per lo più sulle proteine a partire da oggi, un lunedì.

Di mio non consumo pasta, pane o carboidrati complessi. Preferisco semmai i grassi e gli zuccheri semplici e - più di ogni altra cosa - i latticini. Mi hanno consigliato le proteine in polvere e ne ho comprato un sacchetto su Amazon perché volevo arricchire il mio pranzo aggiungendo un'ulteriore fonte di proteine. 

Il mio pranzo - la colazione la "salto" se si esclude il caffè amaro - consiste in un frullato con una mela, una banana e 300 g di latte parzialmente scremato, più un misurino di proteine in polvere. A cena vado di proteine, carne (bianca) come gli hamburger non panati che si trovano in qualsiasi discount.

Non ho un amore spassionato per la verdura. Non so quanto sia un problema. Suppongo che non lo sia. Integro con la vitamina B e D e con altre sostanze "naturali" (spirulina, olio di canapa).

Ascoltando il dott. Valerio Rosso (YouTube) circa lo stato di dipendenza che provoca il caffè, il mio coinquilino stamattina ha preparato una moka di caffè deca prima di uscire, perché vuol "disintossicarsi" dalla caffeina. Lui è un tipo abbastanza perfezionista. Io non mi sento pronta a rinunciare al caffè (così come al tabacco da rullare), però togliere di mezzo ciascuna sostanza nociva che influisce in negativo sul mio sistema nervoso è nei miei progetti futuri.

Con ciò intendo anche il caffè. Le bevande energetiche, nonostante io sia una studentessa e ne abbia (in un certo senso) più "diritto" di altri, ho smesso di consumarle da qualche giorno.

La camminata di stamattina - dopo un caffè e 4000 mg di spirulina - ha esaurito i cattivi pensieri, che un po' mi punzecchiavano durante - e mettevo più forza nelle gambe per "scaricare" un po' di angoscia, di ansia. Funzionava e funziona tutt'ora. Sono abbastanza serena per cominciare la giornata.

Questo include lo studio, per il quale sono un po' in ritardo (di dieci minuti) secondo la tabella di marcia dell'app. Studio Lingue e mi sono posta la sfida di dare ciascun esame di lingua in lingua straniera. (Spagnolo o Inglese). Inizialmente non ci avrei nemmeno pensato. Poi ho avuto abbastanza rabbia nel mio cuore, ripensando agli atteggiamenti dei professori dati dal mio certificato di invalidità psichiatrica, che ho pensato: dimostrerò quanto valgo - essendo una buona, se non un'ottima, studentessa.

Questo d'altronde era quello che pensavo al giorno di presentazione per le matricole - che ce l'avrei messa tutta. Ma questi giorni con lo studio sono stati un po' dispersivi. Aggiusterò il tiro.

Devo anche tenere la casa in un ordine almeno decente. Tendo a lasciarla allo sbando - sono nata disorganizzata. 
Nella mia "tabella di marcia", ovvero la mia routine, ho aggiunto anche un paio d'ore di lavori domestici.

Per adesso gli obiettivi sono dunque tre: dimagrire, impegnarmi nello studio e tenere in ordine il posto in cui vivo. 

Il più importante resta il primo. Spesso, per guarire la mente (che col corpo forma un'unica realtà) devi passare dal corpo. Il mio corpo obeso riflette la mia mente non serena. Scolpirò pertanto la mia sagoma per sanare anche ciò che ho dentro.

domenica 26 ottobre 2025

1. Lo specchio

Siamo sicuri di conoscerci bene, se non altro nel nostro essere "tipi comuni, per bene, a posto", ma a me ha sempre tormentato l'idea di non esserlo. E il soffio che rinfocola il mio disturbo - DBP - è proprio questa persuasione, dovuta a un "pensar troppo", rimuginare troppo, sul non andare bene. Ho interiorizzato un'idea di diversità irrimediabile che è molto difficile da sradicare. L'auto-compassione può insegnarci che, per quanto possiamo sentirci diversi, non siamo altro che piccoli pezzi del puzzle umano, ciascuno di noi è nell'umano, è umano, ed è parte dell'umanità con una sua importanza, cioè con la sua poca importanza. Tormentati, tutti, da un dolore unico - esperienze molto diverse, ma l'inconscio collettivo ci riunisce ognun di noi in un'unica risonanza collettiva; motivo per cui ci rispecchiamo in miliardi nella musica, nelle scene di un film diffuso a livello planetario, pur avendo vite individualmente distinte e distanti.

Questo è un blog di guarigione, e il primo passo di ogni guarigione è capire quanto sia oscuro il proprio "vero io" - quell'Ombra di cui parlava Jung, il nostro "doppelganger" inquietante che traspare in ogni nostro gesto, anche se in modo dissimulato, e spesso sbuca fuori dalla tana in cui cerchiamo di sotterrarlo nei momenti più inaspettati.

Sono qui per guardarmi allo specchio. Non per scavare nel mio interno - l'ho sempre fatto; e la cosa più importante che vedrei in me sarebbe solo l'impressione di essere una "brava persona" tutto sommato, ma più spesso l'idea di essere tutto meno che "buona", a seconda di come si alternano i miei sbalzi di prospettiva. La dissonanza cognitiva è un concetto molto triste della psicoanalisi. Sostiene che ci percepiamo non-so-quante-volte migliori di come siamo dal di fuori. E così più che guardarci allo specchio: proviamo a guardarci da fuori.

Cara Shadow, ti eleggo mio alter-ego. Cosa vedi in me, nel complesso?

Nel reparto psichiatrico dove venni internata mi chiamarono "discarica". E non fu la ferita narcisistica a farmi star male. Piuttosto la domanda: davvero io sono - o sembro - in questo modo? Davvero, come diceva quell'altra paziente, sono - o sembro - una persona così disgustosa da far vomitare?

Tendo ad accogliere lo sguardo dell'altro come un riflesso. Ognuno di quelli che incappano nel mio cammino - e lo fanno tutti nel momento giusto - hanno una verità da raccontare su di me. Anche il peggiore mi fa da specchio. Cerco di specchiarmi negli occhi degli altri. Cosa vedono? Cosa posso leggere nei loro occhi io? 

Al momento credo che la dissonanza cognitiva fra quello che sono e che credo di essere (pur avendo una bassa autostima) sia abbastanza accentuata da tenermi lontana dalla morte. Anche l'isolamento emotivo aiuta. Quella specie di "burnout" che ti impedisce di carpire quanto è profondo il tuo dolore.

Riesumando quel dolore, dandogli voce, pensavo di riuscire a trovare quella compassione che non ho trovato quando ero piccola nelle mie figure di accudimento. Adesso, io sono convinta che il passato non possa far altro che gravare sulle mie spalle. Che non ho più la forza di sostenerlo. E che per andare avanti in questa vita, devo liberarmi di questa zavorra di dolore inutile lunga trentadue anni e guardare al "poi".

Ma non negandola. Piuttosto, accogliendola. Accettandola. 
Cercare dentro ciò che si mendica fuori: accettare se stessi; provar compassione per se stessi; comprensione; persino amore.

Questo è il motivo per cui vivo: rinascere in una nuova pelle. Come chi è pieno di vita - come chi la vita l'ha vissuta.